Gattori Enzo: il background

Capitolo uno

Il mio nome è Gattori Enzo.
Non è sempre stato così. Sono nato in un tugurio in Barriera di Milano. Non è stata una vita facile la mia.
I miei primi ricordi sono confusi e niente affatto piacevoli.
Una stanza lurida e disordinata. Vetri rotti, tende strappate su finestre opache che danno sullo Scrigno. La vista è inquietante: la proiezione del cielo terso o di una fasulla notte stellata contrasta come un pugno in un’occhio con i miasmi onnipresenti, che formano una coltre di fetide nuvole tra Barriera e la cupola. Le fabbriche, i laboratori.
The Wall incombe, anche nei punti dove non è visibile la sua ombra rende ogni luogo cupo. Ti viene voglia di strisciare contro le pareti, di tenerti al riparo, da tutto, da tutti.
Mia madre. Stracci che le coprono le membra ossute. Capelli radi e stopposi. Gli occhi sempre socchiusi come se fosse perennemente in dormiveglia. Tranne quando riesce a procurarsi, non so come, un pezzetto di quello che lei chiama Gianduiotto. Si rintana in un angolo semibuio. Lo sguardo le si illumina mentre fissa tra le mani quella merda. Poi si porta entrambe le mani, avide, alla bocca, inghiotte, proietta la testa indietro, poi lentamente la riporta in avanti, gli occhi spalancati, le pupille che le si allargano rapidamente fino a riempirle l’intera iride, poi la cornea. Sfere nere, che non rivelano dove si posa lo sguardo, forse sta semplicemente guardando dentro di sé.
Mio padre non c’è mai. Lavora, dice lui. Ogni tanto riesce a fare qualche commissione per qualche fabbrica. Spesso sono lavori “indipendenti”. Non dice mai cosa faccia, o per chi. Talvolta passa da casa. Lui è all’antica, la sua droga si trova in bottiglia. E fa quaranta gradi, o cinquanta, ottanta! Si riduce in stato pietoso, poi cerca riparo in casa. Ho imparato a nascondermi. Mamma è sempre troppo stordita anche solo per accorgersi di quando lui c’è. E dovrebbe, perché lei è il bersaglio dello sfogo di lui. Il mondo lo calpesta e lui la mena. La mena perché è intontita, la mena perché è indifesa, la mena perché può farlo. La mena. Sempre. Ho imparato a nascondermi perché altrimenti divento anche io un bersaglio.
Loris. Abita dall’altra parte del pianerottolo. Ha cinque anni in più di me, i suoi sono morti ma lui ha imparato a cavarsela. Loris ha deciso che sono suo amico. Un amico vale più di un’arma, più di tutto. Mi dà consigli, mi insegna a leggere, non si sa mai. Mi porta ogni tanto del cibo, sì, perché i miei non sempre ne hanno ed anche in quel caso non sempre si ricordano di darmene. Mi porta in giro, mi insegna trucchi per sopravvivere.
Ho 7 anni quando Loris mi porta nei Coguari. Sono forti, sono uniti, sono implacabili. Nei Coguari ci si guadagna il rispetto, ci si protegge l’un l’altro. La gang è l’unica famiglia. Noi più piccoli siamo preziosi. Siamo spie, siamo in grado di intrufolarci ovunque, sgraffignare non visti, sottovalutati. Forse anche sacrificabili, ma è la legge della giungla. I coguari in fondo vivono nella giungla no? O nelle montagne? Nel deserto forse? Boh, tanto chissenefrega. I coguari siamo noi e tutti ci temono. Tranne quelli che non ci temono, ovvio.
Il nostro inno:
È ben che ti prepari
Se arrivano i coguari
Tu senti troppi spari
Se arrivano i coguari
Non trovi dei ripari
Se arrivano i coguari
Saranno cazzi amari
Se arrivano i coguari
Lo sussurriamo all’inizio, alla fine è un urlo irresistibile.
Abbiamo il nostro territorio, cambia col tempo, a volte si espande ed a volte si riduce. Ci difendiamo, attacchiamo, rubiamo, minacciamo. È una guerra continua, ma la guerra rende forti. E noi siamo forti. Anche quando ci nascondiamo, anche quando ci ritiriamo per riorganizzarci. No, non fuggiamo, ci ritiriamo per riorganizzarci! È diverso!
Alcuni sono più numerosi, I Curnaias, I Black Ciat, Le Ratavouloire, I Cabonot e Le Masinoire, ma noi siamo più coraggiosi, più tenaci. Siamo imbattibili!
Le Fabbriche sono la nostra fonte, la nostra fortuna e la nostra disgrazia. Tutti hanno bisogno di tecnologia e di prodotti chimici. Soprattutto chi vive al di fuori di Barriera. Ma queste cose non si creano da sole ed hanno il loro prezzo: no, non parlo di stipendi. Parlo di quel che trasudano. Ci sono ovunque canali di scarico limacciosi, miasmi assurdi che provengono dal sottosuolo e da acque putride. Pare che un tempo ci fosse la convinzione che alcuni insetti, gli scarafaggi, e forse i topi, potessero sopravvivere a qualsiasi cosa. Anche alla guerra nucleare. Beh, avevano ragione solo in parte. Alcuni sopravvivono, pochi, ma cambiano, tanto. Al punto che quando ne trovi qualcuno in vita e lo vedi poi rischi di passare settimane a sognartelo. E non sono bei sogni. Approfitta di questa cosa solamente l’enorme colonia di gatti randagi. A quanto pare digeriscono davvero di tutto. E non muoiono. Verrebbe da desiderare di essere un gatto. Ma sono un Coguaro! In pratica un parente, ma molto meglio, no?
Ma sto divagando. Ormai ho 15 anni. Sembra che le Ratavouloire abbiano messo gli occhi sul nostro territorio. Le fabbriche attorno alla discarica della Viados cosmetici. Materiali utili e preziosi. Grande vendibilità nel mercato nero. Loris, che ormai è diventato uno dei capi dei Coguari, cerca di organizzare una resistenza, riesce a coordinare un paio di assalti tattici che fanno gravi danni alle Ratavouloire. E che cavolo, noi siamo gatti e quegli altri non sono che topi volanti. Ce li sbraniamo!
Ma loro sono tanti, troppi. Forse hanno anche qualche spia, non so. So solo che sono riusciti a circondare uno dei nostri covi, l’ultimo. Hanno anche invaso il tunnel sotterraneo che avrebbe dovuto consentirci la fuga. Stiamo discutendo tra noi se proporre un accordo, una resa. Tutto per avere salva la pelle. Siamo rimasti davvero in pochi.
La porta di accesso principale esplode verso l’interno. Ci chiudiamo in cerchio. Loris impugna la sua katana. È un’arma magnifica, frutto del miglior colpo che il mio amico abbia mai fatto. Ha il manico rosso, sembra che chieda di essere immersa nel sangue del nemico! Sono al suo fianco, con il mio fidato coltello a scatto che tante volte mi ha salvato la vita. Poi ci sono un paio di ragazzini nuovi, arrivati da meno di un mese ma già pronti con un coltello in mano. Un Giaguaro deve avere gli artigli! E poi tre ragazze, tra cui Misha, con quegli occhi leggermente a mandorla, le ciglia lunghe, le movenze feline. Misha, con cui non sono ancora mai riuscito a parlare perché ogni volta che la guardo mi si spengono le corde vocali. Ed infine Diego, il gracile ed imbranato Diego, che sta cercando di guarire da una infezione presa proprio nella discarica. Ma che invece di migliorare sembra peggiorare sempre più. Diego, con in mano un machete trovato chissà dove, troppo pesante per lui, ma sempre meglio di niente.
Le Ratavouloire entrano come un fiume in piena che rompe gli argini. Scendono dal tetto, entrano dal tunnel che avrebbe dovuto garantirci la fuga, dalla porta in frantumi. Fanno largo ad un colosso con un’arma mai vista. Non le conosco bene le armi da fuoco, sono armi da vigliacchi, ma quella cosa fumante ha più l’aspetto di un cannone che non di una pistola. Ma sembra perfetta per le mani enormi che la impugnano.
L’energumeno indica la katana di Loris. “Dammela!” e sporge la mano libera verso il mio amico mentre con l’arma punta direttamente la sua faccia.
Loris, il cauto, il tenace, il generoso, lo stratega … Loris fissa negli occhi il mostruoso avversario. Ruota la katana tra le mani e, lentamente, la porge dal lato del manico.
Ma il tempo si ferma un istante, un urlo terrificante alle mie spalle, vengo spinto da parte e con un guizzo un machete viene calato sul braccio del colosso. L’arma da fuoco cade per terra rotolando, ancora nella mano staccata di netto. Con la coda dell’occhio vedo il volto febbricitante di Diego.
Il bestione allunga la mano sulla katana, la strappa con violenza dalla presa di Loris, troppo stupefatto per reagire. Un tremendo fendente con una mano, e Diego e Loris si ritrovano entrambi con il petto squarciato. Entrambi si accasciano al suolo senza vita, mentre il colosso esclama “Fateli fuori. Tutti!”.
Un secondo, è questa la differenza tra la vita e la morte. Un secondo prima ed avremmo potuto essere salvi, sconfitti ma salvi. Un secondo dopo e siamo tutti morti!
Ma forse ho ancora un secondo. Tutti sono immobili, il cervello sta ancora elaborando cosa stia succedendo. Non riesco nemmeno a pensare, l’istinto prende il controllo. Il mio fidato coltello lascia la mia mano, sibilando vola verso il bestione, si pianta perfettamente nella morbida gola.
La katana comincia a cadere dalla mano improvvisamente priva di controllo. Mi accorgo che sto seguendo il percorso del coltello, ma per riflesso afferro la katana, faccio una capriola laterale aspettandomi in qualsiasi momento il dolore delle lame nemiche. Ma stavolta sono io quello che ha agito di sorpresa. Nessuno ha ancora reagito, e di fianco a me una finestra sgangherata rivolta su uno strapiombo di una decina di metri. E poi sul fondo la discarica, coperta di acque puzzolenti, inquinate, disgustose. La salvezza.
Un tuffo infinito, tra frammenti di legno e schegge di vetro. Qualche graffio è arrivato anche dalle lame delle Ratavouliore tra cui mi sono tuffato. Ma sono vivo. Mentre precipito mi viene in mente la vecchia battuta “Finora tutto bene” del tizio che precipita dal palazzo ma non ha ancora raggiunto il marciapiede.
Rido da solo, intontito dal dolore, mentre l’acqua gelida mi accoglie tra le sue braccia. Sto ridendo, pessima mossa mentre sei immerso. Inghiotto un paio di sorsi. Sento la coscienza offuscarsi. Appena prima di svenire penso “Beh, forse non proprio tutto”.
Buio.
Non ho il coraggio di aprire completamente gli occhi. Sono morto? I morti lo sanno di essere morti?
Sento umidità intorno a me, ma non ho freddo. Mi sento come se fossi sotto le coperte, ma sdraiato nel fango. Sento le orecchie fischiare leggermente, ed uno strano rumore di sottofondo. Strano, eppure familiare. Come un ronzio, anzi no, un motore al minimo. Neanche. Un ronfo?
La parte destra della mia faccia è premuta contro il fango. Spalanco gli occhi di botto. Un muso peloso, anzi, diversi musi pelosi, mi stanno fissando. Sento dei pesi addosso a me, con la coda dell’occhio vedo diversi gatti sdraiati su di me, placidi. Fanno tutti le fusa. Molti stanno leccando le ferite alle braccia ed al volto.
Ok, forse sono morto davvero.
Resto in quella posizione per un bel po’. Certo che se fossi morto, non dovrei sentire meno dolore?
Provo a parlare, sottovoce “Qua, micio micio micio!”. Alcuni gatti che mi stavano fissando arretrano leggermente, diffidenti, altri scendono dalla schiena. Riesco a muovermi. Dolore!
“Se senti dolore vuol dire che sei vivo!” dove l’avevo sentita questa? Provo ad alzarmi.
Sono ancora nella discarica. In un punto da cui non si intravede il rifugio. L’ex rifugio. La bara dei Coguari. Le immagini dell’assalto mi ritornano in mente di botto. Il mio tuffo dalla finestra. Le lame delle Ratavouloire calare impietose su tutti i miei compagni. Anche sui ragazzini. Anche su Misha. Devo impedire alla lacrima che sta sorgendo sul mio occhio destro di uscire. Il dorso della mia mano l’asciuga. Che strano è peloso, più del solito. Saranno i peli di gatto.
Vedo per terra la katana di Loris. L’ex katana di Loris. La mia katana adesso!
Sono passati diversi giorni. Sono rimasto sempre nascosto. Ho evitato ogni contatto con chiunque, ma ho potuto scoprire che i Coguari non esistono più. Anche quelli che si erano nascosti e non erano presenti nell’ultimo rifugio sono stati trovati e trucidati. I simboli delle Ratavouloire sono ovunque, per chi conosce le gang e sa dove vederli.
Sto guarendo dalle ferite rapidamente, troppo rapidamente rispetto al solito. Ed ero messo davvero male! Ah, non erano peli di gatto quelli sul dorso della mano, erano miei! Così come le orecchie pelose da felino. Mi sa che dovrei farmi vedere da un medico, o meglio ancora da un veterinario, haha!
Ma il mio riflesso nello specchio è ancora troppo simile a com’ero prima. In fondo ho ucciso uno dei capi delle Ratavouloire. E questo non è una cosa positiva se vuoi vivere nel loro territorio. E poi il mio aspetto non mi facilita, sono un po’ troppo particolare per non essere notato. E rifugiarmi in un’altra gang sarebbe impossibile: non mi accetterebbero perché li metterei in pericolo.
Me ne devo andare. Beh, questo è un po’ un luogo comune. Tutti quelli che vivono in Barriera hanno questo come obiettivo. Non per niente è stato costruito The Wall. Non per niente ci sono le guardie che sparano a vista a chiunque provi a fuggire.
Ho sentito una leggenda, pare che esista una zona di The Wall che non sia costantemente sorvegliata. Si trova direttamente sopra ad un lato allagato di una discarica, per cui avvicinarsi da quella direzione sarebbe impossibile. E nessuno vuole cadere dentro una discarica. Non si sopravvive. Dicevano. Per cui chi deve sorvegliare quel lato considera un po’ il posto come un turno di “vacanza”, e di solito passa il tempo a giocare d’azzardo o addirittura a dormire.
Certo, non è semplice scalare un muro di 15 metri. Ma pensa un po’, oltre ai peli mi sono spuntati anche gli artigli! Chissà, se continuassi ad avere fortuna potrei riuscire a passare.
E poi? Ho sentito di un posto, Cascina Roccafranca, dove sembra accolgano persone in difficoltà. Io sono in difficoltà direi, per cui ho le credenziali adatte. Ok, mi dirigerò là, se riesco ad evitare di essere rintracciato dalle Ratavouloire, se riesco a sopravvivere alla traversata della discarica, se riesco a scalare 15 metri di muro, se riesco a non farmi beccare dai sorveglianti, se riesco ad attraversare la città, se riesco a trovare Cascina Roccafranca, se mi accolgono.
Facile no?
Il mio nome? Gattori Enzo (da ora in poi)

Capitolo due

Ci sono voluti diversi giorni di preparazione, lunghi e pericolosi. So che mi stanno cercando. Cerco di procurarmi materiali di recupero, supercolla, corda leggera, lunga e resistente, un rampino. Devo essere leggero e veloce, devo diventare un’ombra.
La zattera di contenitori di plastica, la tuta “ermetica” fatta con gli stessi materiali, tutto comincia a dissolversi sin da subito, appena mi calo nella palude di liquame tossico. I miasmi sono tremendi e soffocanti.
Qualcosa sfiora la paletta di plastica che uso come remo. Mi esce naturale un soffio minaccioso. Piccole zampette artigliate si ritirano nel liquido denso e scuro.
Riesco ad arrivare sotto il muro con quel che resta della zattera di fortuna, semi-dissolta, appena in tempo prima di ritrovarmi a mollo.
La muraglia è imponente, coperta per i primi metri da una patina viscida. Ho sopravvalutato le unghie come mezzo per scalare, ma fortunatamente ho il rampino.
Lancio lungo e preciso, il gancio supera la cima del muro, si attacca a qualcosa di cedevole. Tiro e sembra tornare indietro ma poi si blocca. Al primo colpo! E chi sono, Mandrake? E soprattutto, chi diavolo è Mandrake?
Mi isso sulla corda trattenendo il fiato, sperando nella penombra. Non posso sapere se mi vedono, lo scoprirò salendo. Niente fari, niente spari. Buon segno.
Arrivo in cima al muro. Tutto tace. Davanti a me due metri di filo spinato da scavalcare. Non ho portato niente per fare luce, ma i miei occhi adesso si adattano a sufficienza alla visione notturna. Ecco dove si è agganciato il rampino, sporge dal collo dell’unico sorvegliante, che a sua volta si è incastrato tra la sua sedia ed il filo spinato. Non è riuscito nemmeno ad emettere un suono. “Non si dorme al lavoro!” gli sussurro. Ci metteranno un po’ a pulire. Mi sa che la mia fuga farà cambiare qualcosa nella gestione della sorveglianza di quella zona di muro, ma tanto sono fuori.
Ho scoperto che riesco a saltare davvero bene ultimamente, per cui mi levo di dosso quel che resta della copertura di plastica e la appoggio con cautela sul filo spinato, poi mi concentro e spicco un bel balzo. Quasi perfetto, lascio qualche pelo sulla barriera, ma non a sufficienza per perdere il vizio (dovevo fare il comico).
Nessun segno di vita, bene, mi sporgo dal parapetto dall’altra parte. Un’ondata di profumi di spezie mi fa girare per un attimo la testa. O forse è solo il sollievo. Stacco il rampino, lo lego alla ringhiera e mi calo nel buio.
Neo Mecca, non il posto ideale dove vivere, ma è facile nascondersi. Nessuno si insospettisce se giri con una felpa col cappuccio perennemente a coprirti il viso.
Strano come le cose fuori siano diverse. C’è gente che gira non armata, allo scoperto. Cerco di avvolgere la katana in uno straccio e la aggancio dietro la schiena perché sembra che girare armati attiri un po’ troppo l’attenzione.
Ci sono sistemi di controllo e droni e camere olografiche. Agenti di sicurezza che girano pimpanti e sicuri di sé, minacciosi. In Barriera non hanno neanche il coraggio di entrarci con i blindati, in Barriera non durerebbero dieci minuti!!
Ma non sono più nel mio territorio, devo restare concentrato, fare molta attenzione, altrimenti sarò io a durare dieci minuti.
Il piano è sempre di raggiungere questa Cascina Roccafranca, ma spostarsi non sembra essere così facile come speravo.
Devo innanzi tutto attraversare Neo Mecca, evitare i controlli, magari sopravvivere nel frattempo. Sembra che da queste parti non ci siano gang, ma l’intera popolazione fa parte di gruppi chiusi, compatti. Arabi e africani, in gran parte, ma anche cinesi e slavi. Parlano ciascuno la propria lingua. Ti capiscono, certo, ma ti rispondono nel loro idioma, incomprensibile. E se non li capisci non sei dei loro. Quindi sei un nemico. Quindi ti chiudono le porte in faccia.
Per poter mangiare qualcosa sono disposto a fare ogni genere di attività. Finalmente qualcuno mi dà retta. Pulisco i resti marci da terra lasciati dai loro sudici mercati. Un fetore tremendo, ma io sono abituato alle discariche chimiche, bazzecole. Una giornata di lavoro, per avere un pezzo di qualcosa che potrebbe anche sembrare pane ed un pezzo di telo strappato che diventa una coperta. Mi accuccio in un angolo sporco, il mio rifugio per la notte.
La strada è lunga da fare a piedi, e devo evitare la zona centrale, ma un paio di giornate di miseria mi consentono di raggiungere senza guai la zona rossa di Sin Salvario. Mi sento più a mio agio da queste parti. Il passaggio da donne col velo a donne senza veli mi tira parecchio su il morale.
Certo, non ho un eurobit, non ho neanche una carta ora che ci penso, quindi è tutto un “guardare ma non toccare”. Peggio per loro, non sanno cosa si perdono, ah!
Riesco a scroccare un paio di bocconi in una presentazione di una nuova olopiattaforma, che di forme piatte ha ben poco. Inghiotto vorace ogni genere di stuzzichino disposto per i potenziali clienti, fino a quando un paio di energumeni corazzati mi “accompagnano” non tanto gentilmente all’uscita. Mi sa che dovrò procurarmi dei vestiti di ricambio, e magari trovare il modo di lavarmi, altrimenti potrò mimetizzarmi solamente tra i mendicanti. Provo ogni tanto l’impulso di leccarmi qua e là ma riesco a trattenermi, per il momento almeno.
Cerco di recuperare un po’ di forze riposando in un vicolo buio nel retro di uno degli infiniti locali. Dall’uscita posteriore a pochi passi da me escono alcune delle professioniste, forse a fare una piccola pausa. Non ho neanche bisogno di nascondermi, la mia miseria è talmente evidente che mi rende invisibile, resto rannicchiato nel mio angolo.
Sento parte dei loro discorsi “… fino a Mirafiori, vi rendete conto? Ma mi ci posso pagare metà di quel che devo a Rex, e lui non è proprio famoso per la sua pazienza!”
Risatine.
“Flora!” una voce forte, all’improvviso.
Davanti a loro nel vicolo appaiono due tizi che sembrano usciti da un olomovie di serie B. Grossi, brutti, sporchi e cattivi. Uno, il più alto, ha il cranio lucido ed un tatuaggio (almeno credo che sia un tatuaggio) che gli copre tutto il viso e che lo fa assomigliare ad un teschio. L’altro è avvolto in un impermeabile di pelle scuro, ha capelli così unti che sembrano cosparsi di grasso.
Riporto lo sguardo sulle prostitute: dove prima c’era un gruppetto che chiacchierava adesso ne è rimasta solo una, le altre stanno già tirandosi dietro la porta di emergenza. Quella rimasta è impietrita. Solo la sua mano che regge la sigaretta si muove, perché trema vistosamente. Gli stivali in finta pelle di un vistoso blu elettrico spuntano da sotto la spessa vestaglia coperta di lustrini multicolore, che mandano riflessi psichedelici. I capelli di un improbabile colore viola raccolti in una crocchia. Il Mascara abbondante attorno ai suoi occhi le dà un aspetto spettrale.
“Rex ti manda i suoi saluti” esclama con un ghigno Impermeabile. Teschio estrae una catena uncinata e comincia a farla dondolare.
“Cosa? Perché? Li ho i crediti, aspettate!” la voce della ragazza si fa sempre più acuta.
“I crediti erano per la settimana scorsa, adesso serve … come ha detto Rex?” Impermeabile lancia uno sguardo a Teschio, sogghigna di nuovo, poi fissa la ragazza “L’esempio! Ecco, Rex ha detto che serve un esempio!”
La catena ruota rapidamente nelle mani di Teschio, poi con un guizzo scatta verso la ragazza e le sfiora una guancia. Una linea sanguinante corre dalla bocca fin verso l’orecchio.
“Bel colpo, ma puoi fare di meglio!” esclama Impermeabile.
Nel silenzio si sente il clangore della catena che cade a terra. Impermeabile si volta verso Teschio, che lo sta fissando con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Un rivolo di sangue cola dalla sua bocca. Dal suo stomaco spunta una lunga lama. Una katana. La mia.
Impermeabile esita, non capisce subito, poi mi vede mentre sfilo rapido la katana dal corpo di Teschio, che non ha ancora avuto il tempo di cadere. Mani frettolose si infilano sotto la palandrana alla ricerca frenetica di qualcosa, un’arma, ma la sorpresa e la rabbia non sono buone alleate. Non quando hai di fronte qualcuno che è vissuto maneggiando lame.
Intravedo una pistola che sta per uscire da una fondina sotto l’impermeabile, ma la mia katana è già passata sotto il suo mento, rapida, silenziosa, letale.
Senza un lamento si accascia al suolo. Lo guardo, poi fisso la ragazza.
Ha gli occhi talmente spalancati che per un attimo ho paura che le caschino dalle orbite. Continua ad essere immobile, la sigaretta le è caduta dalla mano tremante.
“Flora, suppongo?” accenno ad un sorriso.
“Ma, io … tu … chi … che succede?” in effetti posso capire che sia sorpresa, lo sono anche io in effetti: cosa mi ha spinto ad intervenire? Boh, ormai è fatta, tanto vale approfittarne.
“Per caso ti serviva aiuto?” le faccio l’occhiolino mentre pulisco la spada e la riavvolgo nello straccio.
“Ma, no, cioè, sì, … ma chi sei? Che succede?”.
Sembra un disco rotto. Crisi di nervi? Probabile. O forse è solo affascinata, quando le ricapita un bel micione come me? Mi chino sul secondo cadavere.
“Stavo pensando …” comincio a sfilare l’impermeabile dal cadavere “Sbaglio o stavi parlando di Mirafiori?”.
Gli occhi di Flora si socchiudono “Che cosa c’entra?”
“Pensavo di proporti una gita in compagnia” sfilo dalla tasca di Impermeabile (beh, ok, non si chiama più così, ce l’ho io l’impermeabile adesso) il portafogli, prendo i crediti e butto il resto per terra.
Alzo lo sguardo su Flora. Lei è evidentemente indecisa se essere perplessa, spaventata o incuriosita. “Una gita?”
“Sì, a Mirafiori” mi sposto su Teschio, stessa operazione sul portafogli. “Vedi, sono nuovo da queste parti e pensavo di chiederti se conosci un mezzo per arrivarci. E visto che mi pareva di capire che tu ci volessi andare, potrei accompagnarti, che ne pensi?” la guardo di nuovo.
Ok, adesso è pensierosa. Ha smesso di tremare, tutto sommato è più tosta di quanto immaginassi. “Mi sa che hai ragione, credo sia un buon posto dove andare. Devo solo recuperare la mia roba però, perché se parto poi non potrò più tornare!”
Indosso l’impermeabile: mi sta abbastanza bene, copre molto meglio la katana. Indico la pistola ancora per metà nella fondina del secondo cadavere. “Quella se la vuoi prendila tu, non si sa mai”.
Ci pensa su un attimo, poi si china e la raccoglie. Se la infila nella borsetta. Alza lo sguardo verso di me “Me lo vuoi dire come ti chiami o no?”
“Enzo”.

Capitolo tre

La accompagno al suo appartamento. Ci muoviamo rapidi, teniamo d’occhio qualsiasi cosa che ci possa sembrare sospetta. Camminiamo radenti ai muri, quasi non ci guardiamo l’un l’altra, siamo coordinati come se ci conoscessimo da sempre. Forse siamo noi quelli che sembrano sospetti.
Il palazzo è di quelli antichi, non ristrutturati per via dei costi e perché faceva molto “elegante” abitare in un posto con scale in pietra e pareti in mattoni. Non ci sono neppure impianti di videosorveglianza, sembra di entrare in un museo.
Saliamo le scale, continuando a controllare se qualcuno ci sta aspettando, o se qualcuno ci ha seguito. Arriviamo al quarto piano, corridoio corto ma male illuminato. L’unica cosa quasi moderna è il portoncino dell’alloggio, ovviamente blindato. Brutto, ma funzionale.
Flora rovista in borsa. Credo che ci sia una qualche legge della fisica che cerca di spiegare come mai le chiavi all’interno di una borsetta tendano a scomparire. Trovate! Mi indirizza un accenno di sorriso, apre, mi fa entrare.
Mi sarei aspettato un posto pittoresco, la tana del peccato!
Peccato! Non nel senso che speravo però, le mie aspettative sono subito deluse. L’appartamento è quasi spoglio. Oltre al tavolo ed un paio di sedie, un armadio in un angolo ed un letto forse un po’ troppo piccolo per fare acrobazie. Ambiente minuscolo, una porta socchiusa che evidentemente dà sul bagno.
“Ti spiace se mentre tu ti prepari io approfitto per una doccia? Ne ho davvero bisogno!” le chiedo indicando il bagno.
Lei si è già tolta la parrucca viola, ha dei bei capelli castani, fini, tagliati corti. Sta meglio così secondo me. Annuisce in silenzio mentre si avvicina all’armadio al fondo del letto.
L’acqua mi rigenera, appena tiepida, sento che la stanchezza sta colando via da me assieme allo sporco. Dietro di me la tenda della doccia si scosta piano piano. Sto già preparando gli artigli quando sento il suo sussurro “Ti spiace se approfitto anche io?”.
Le sue mani delicate scorrono sulla mia schiena pelosa, una delle due raggiunge le mie orecchie feline, l’altra scorre sulla coda e raggiunge la punta, la strizza. Approfitto.
Lo so, presumo sia gratitudine, ma sembra che Flora abbia apprezzato. Soprattutto il giochino con la coda. Buon per lei … ma anche per me.
Mi rivesto e noto che ha già messo “la sua roba” in un borsone. A quanto pare non ha molto, ma chi sono io per giudicare, visto che praticamente tutto quello che possiedo è in un fodero improvvisato fatto di stracci che copre una lama ereditata mio malgrado?
Partiamo subito, sempre controllando di non essere seguiti, per non avere sorprese. Arriviamo al parcheggio dove Flora si avvicina decisa ad una fila di veicoli tutti uguali. Ah, già, esistono questi tizi che ti portano in giro a pagamento da queste parti. Non ci avevo pensato, forse anche perché non avrei avuto nulla con cui pagare.
Il tizio grasso e sudato appoggiato alla vettura scelta ci osserva, o meglio osserva lei. Anche senza i lustrini e la parrucca è una che si fa notare. Io sono ben coperto dall’impermeabile, spada ben nascosta, cappuccio in testa, non parlo e mi limito a portare il grosso borsone di Flora. Sono una semplice comparsa.
“Mirafiori, centro Europa?” chiede Flora.
“Salite”, il ciccione butta per terra la sigaretta e la schiaccia col tacco prima di mettersi al volante.
Certo, avrei dovuto pensarci. Non so guidare ma basta chiedere ad altri di farlo. E pagarli. Questa cosa che tutto è in vendita e disponibile non mi è ancora entrata in testa.
Mi siedo di fianco a Flora mentre sfrecciamo veloci, passiamo di fianco agli edifici della Johnson&Johnson, ci dirigiamo verso le zone “cibernetiche”. Il centro Europa è appena prima, in una zona densamente popolata, e la Cascina Roccafranca è proprio da quelle parti.
Quando arriviamo è notte fonda. La vettura si allontana e noi ci guardiamo intorno momentaneamente indecisi sul da farsi. Nessuno in vista.
Un ronzio costante, sempre più forte, attira il mio sguardo. Nel cielo una luce azzurra si avvicina. Intravedo nell’oscurità un drone.
Sta venendo proprio verso di noi. Cominciamo a camminare, il drone ci segue, svoltiamo in un vicolo, lui sempre dietro, acceleriamo il passo, merda, è sempre lì. Ce l’ha con noi!
A mali estremi … indico a Flora un tombino. Lei annuisce. Apro l’ingresso, mi ci calo, la aspetto di sotto e l’aiuto a scendere. Richiudo. Seguici adesso pezzo di ferraglia!
Si vede davvero poco. Indovinate? Puzza! Lei tira fuori dalla borsa il palmare ed accende la torcia: scegliamo una direzione a caso e ci avviamo. Seguiamo un po’ di cunicoli, cambiamo direzione un po’ di volte. Bene, direi che siamo abbastanza distanti, le suggerisco di uscire. Annuisce di nuovo. Siamo stati fortunati, niente coccodrilli albini. Mi era venuto in mente dopo che avevo sentito dire che ce ne fossero in giro. O erano cani mutanti?
Mi arrampico su di una scaletta, apro il tombino leggermente, sbircio. Nessuno in vista. Salgo ed esco, poi aiuto Flora. Ronzio. Merda! Eccolo di nuovo il drone! Partiamo di corsa.
All’incrocio successivo, in silenzio, indico a Flora di andare a destra, mentre io svolto a sinistra. Il rumore si allontana, sta seguendo lei.
Mi fermo, mi volto. Lei sta proseguendo senza voltarsi, senza fermarsi, comincia a correre. Il drone emette un rumore, uno scatto. Sulla schiena di flora appare un puntino rosso luminoso. Puntamento laser!
Strano effetto, quando vedo il puntino laser non riesco a distogliere lo sguardo. Mi attira ipnotico. Una improvvisa voglia di acchiapparlo si impossessa di me. Parto di corsa all’inseguimento, ma la mia parte razionale ritorna e porto nuovamente lo sguardo sul drone. Intravedo qualcosa, un tubo che prima non c’era, una canna? Realizzo troppo tardi, solo al momento del botto, cosa sta succedendo.
Uno sparo, un grido e Flora è a terra. Mi sto già sfilando l’impermeabile. Spicco un balzo, l’impermeabile teso tra le mie mani diventa una rete. Sì, so come si catturano i droni. Preso!
Atterro agilmente, il drone rinchiuso nel fagotto spara di nuovo, alla cieca, ma lo sto tenendo fermo, non mi colpisce. Lo scaravento per terra, gli balzo sopra con entrambi i piedi.
Rumore molto soddisfacente di meccanismi fracassati, bene! Continuo a saltare, due, tre volte. Il fagotto non si muove più. Addio all’impermeabile però.
Alzo lo sguardo su Flora, è stesa a terra, braccia allargate, faccia sul marciapiede. La borsa a terra al suo fianco. Corro da lei, mi inginocchio. Sul suo viso uno sguardo stupito, che si sta spegnendo. Una lacrima le scorre lenta sul viso. Guardo la sua borsa, poi lei, poi di nuovo la borsa. L’hanno trovata, non so come. Un meccanismo di tracciamento. Addosso a lei? Nella borsa? La pistola rubata?
Gli spari hanno attirato l’attenzione, qualche luce si accende alle finestre di alcuni appartamenti popolari. Non è il momento di restare qua. Mi spiace Flora, davvero, ma ti devo lasciare, tu e la tua borsa.
Mi alzo, mi volto sparisco nell’ombra.
Evidentemente i debiti che aveva erano davvero grossi, o forse non è andato giù il fatto che gli scagnozzi siano stati scannati. Non riesco a pensare. Ripercorro quello che è successo da quando l’ho vista per la prima volta. Non mi pare di essermi mai esposto, ero sempre col cappuccio in testa. Non credo di poter essere riconosciuto facilmente. Spero. Devo assolutamente trovare un rifugio. Dove sarà la Cascina Roccafranca? Sarà aperta a quest’ora di notte?
Vago un po’ tra i vicoli bui. Di dormire non se ne parla. Sento un rumore dietro l’angolo, come un soffio, uno schizzo. Non sembra un drone.
Mi sporgo quatto quatto. Un graffitaro all’opera. Quanto di più simile ad un abitante di Barriera che posso trovare qua, probabilmente. Resto immobile, tranquillo, ad osservarlo. Sembra di essere a casa, mi rilassa un po’.
Il tizio sembra poco più di un ragazzino. Non che io sia tanto più vecchio di lui. È abile però, ha solo tre bombolette ma sta creando un’opera talmente complessa da suscitare tutta la mia ammirazione, ed io me ne intendo di graffiti.
Un rumore improvviso di fianco a lui. Un drone? Veloce come un lampo il ragazzino svanisce. Ha lasciato a terra due bombolette.
Non era un drone, era un sistema di irrigazione automatico. Che pirla! Che sollievo però.
Mi avvicino cauto, raccolgo le bombolette. Una rossa ed una nera. Me le ficco in tasca. Continuo ad esplorare.
Vedo un’area leggermente più illuminata, mi dirigo in quella direzione. Non si sa mai, potrebbe essere un posto dove correre meno pericoli, forse anche dove trovare indicazioni.
Meglio, molto meglio. Il pannello olografico dice “Cascina Roccafranca”.
Ma dai, non ci posso credere. Ovviamente l’ingresso principale è chiuso. Di fianco all’ingresso una specie di armatura.
Mi avvicino, guardandomi intorno. L’armatura è inquietante. Non può essere un robot da guardia, mi avrebbe già intercettato. Ma che senso ha lasciare una roba del genere all’ingresso? Una decorazione?
A mio gusto troppo seria come decorazione. Estraggo d’istinto la bomboletta rossa, la scuoto e la punto verso il petto dell’armatura.
“E tu cosa credi di fare?” la voce esce dall’armatura!
La bomboletta mi scappa di mano e cade dietro di me, rotolando. Fisso l’armatura.
Mi esce un sorriso mentre rispondo all’armatura “Ehm a dire il vero cercavo un rifugio, mi dicono che in Cascina c’è posto per chi cerca un posto sicuro!”
L’armatura si muove! È lei che parla, non è una videocamera camuffata! “E pensi che venire a verniciarmi ti possa aiutare a trovare un rifugio?”
“Scusa, pensavo che fossi solamente una decorazione, sono un artista e pensavo di abbellirti per fare buona impressione in Cascina!” mi esce di getto.
“Non fai buona impressione verniciandomi.” Risponde secca l’armatura, poi continua “La Cascina è chiusa. Torna dopo le 7 di mattina e smettila di rovinare la proprietà privata!”
“Va bene, scusa!” allungo la mano “Comunque io sono Enzo!”
Non ricambia con una stretta di mano, ma risponde secco “Danny”.

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